Tuesday 19th March 2024,
IL DESTRO // Idee che ti mettono al tappeto

Una Destra per la Terza Repubblica, la relazione di Alessandro Nardone

Una Destra per la Terza Repubblica, la relazione di Alessandro Nardone

di Alessandro Nardone – Vorrei cominciare questa mia relazione portandovi, sia pur idealmente, a circa settecento chilometri da qui, in uno splendido posto che, specialmente in questa stagione, diviene il punto di ritrovo di numerosissimi giovani, che di giorno studiano sotto i raggi del sole, e la sera passeggiano in riva al lago. Personalmente trovo che sia essenzialmente questo, il significato più bello e potente di quel luogo, ovvero che si animi e prenda vita esattamente negli stessi giorni in cui, quarant’anni prima, una giovane vita veniva barbaramente spezzata. Una delle targhe su cui è scolpito il suo nome è sovrastata dai rami di un bellissimo salice piangente che, ora che ci penso, ricordano la lunga chioma che incornicia il suo volto di ragazzo, dolcemente accarezzato dal vento di primavera, che soffia, leggero.

Ecco, il posto in cui ci troviamo dal 2003 porta il suo nome ché, poi, in questo preciso istante, è il nome di ognuno di noi: Sergio Ramelli.

Se ho voluto cominciare il nostro viaggio di oggi da Passeggiata Ramelli, è principalmente perché ritengo che la figura di Sergio, la sua purezza, si stagli perfettamente al centro dell’orizzonte politico che – sin da oggi – ci apprestiamo a costruire. Parafrasando un celebre articolo di Pierpaolo Pasolini, possiamo affermare che Sergio – e insieme a lui tutti i Martiri a cui la vita è stata strappata via in quegli anni terribili – sono «un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese libero in un Paese asservito, un Paese coraggioso in un Paese vigliacco».

Pulizia, onestà, intelligenza – e, quindi, anche cultura – libertà e coraggio sono qualcosa di più, che non semplici sostantivi, per noi. Già, perché – e lo voglio dire con estrema franchezza – uno dei tanti motivi che hanno portato alla disgregazione della Comunità della destra, consiste nell’averla lacerata lasciandoci appiccicare addosso il distintivo di una fazione interna, guardando la realtà attraverso lenti che c’illudevano che tutto il Mondo cominciasse e finisse tra i confini di quello stesso perimetro.

Qualcuno, ai vertici di Alleanza Nazionale, pensò che fosse sufficiente sbandierarli, quei valori, senza rendersi conto che, così facendo, ovvero non traducendoli in comportamenti concreti e – in alcuni casi – facendo propri atteggiamenti e princìpi agli antipodi dei nostri, produsse, nel nostro tessuto civile, una sorta di psicosi collettiva, il trionfo del vorrei ma non posso: credevamo fermamente in determinati valori, ma eravamo costretti da chi stava sopra di noi a difenderne altri.

No, non è mia intenzione cadere nella medesima trappola del rancore, del tutti contro tutti. Allo stesso tempo, però, ritengo che certi errori meritino di essere affrontati e analizzati con la dovuta attenzione, perché se impareremo da essi, allora avremo la possibilità di capitalizzarli, comprendendo quale sia la via corretta da seguire. Altra premessa imprescindibile, è che tale analisi dovrà fondarsi sull’agire della destra in sé, e non dei suoi singoli rappresentanti, per il semplice fatto che la nuova generazione che si assumerà questo compito tanto arduo quanto affascinante, dovrà essere appunto scevra da rivalità stantie e nocive.

Per fare questo, vi chiederò di compiere un altro salto, stavolta a ritroso nel tempo, diciamo di circa trent’anni. Fu allora, infatti, che un leader estremamente lungimirante decise di mandare in soffitta quello che, ormai, riteneva un vecchio modo di fare politica, in ragione di un leader e di una classe dirigente nuovi di zecca contro cui, all’inizio, si scagliarono gran parte dei notabili di allora. Beh, si da il caso che quel partito fosse il Movimento Sociale Italiano, e che il leader che tanto fortemente volle quella che oggi chiameremmo rottamazione fu proprio Giorgio Almirante, che la mise in atto non curandosi dei mal di pancia del suo vecchio apparato. Una scelta innovativa, se vogliamo visionaria, certamente capace di anticipare i tempi, grazie alla quale la destra italiana riuscì a spogliarsi dei nostalgismi guadagnandosi, così, i galloni di forza di governo.

Già, ma allora, al netto dei personalismi, cos’è che non ha funzionato? Cominciamo col dire che molti di quei giovani di allora, anziché seguire le orme di Almirante favorendo la crescita di una nuova classe dirigente, si sono adeguati alla deriva personalistica dei partiti ergendosi a diga generazionale; dei veri e propri Crono le cui divisioni hanno disperso gran parte delle fila di quel vero e proprio esercito composto da amministratori locali e quadri di Azione Giovani. Quanto, poi, alla sostanza dell’azione politica, molti furono gli sbagli, e principalmente strategici, a cominciare dal contributo troppo debole al radicamento di una cultura della destra, per il quale è certamente mancata la volontà di credere  in soggetti esterni al partito come, ad esempio, giornali, fondazioni, think tank e anche singole persone realmente in grado di dimostrare storicamente – e quindi senza poter essere tacciati di apologia – che, giusto per citare un esempio, indipendentemente dal giudizio di merito, Benito Mussolini sia annoverabile a pieno titolo tra i maggiori statisti del secolo scorso.

Compito in parte riuscito a intellettuali provenienti dalla sinistra come Gianpaolo Pansa che, grazie a pubblicazioni come Il Sangue dei Vinti, ha avuto il grande merito di aprire il dibattito sulla guerra civile che straziò il Paese nei tre anni successivi al secondo conflitto mondiale; e Luca Telese che è stato capace, con il suo Cuori Neri, di provocare l’emersione delle storie dei Martiri che – a causa della loro adesione alla destra in anni in cui a sinistra cantavano «uccidere un fascista non è reato» – vennero assassinati per mano dell’odio da cui erano animati gran parte dei militanti e dei dirigenti della sinistra extraparlamentare comunista durante la triste stagione che conosciamo come gli Anni di spranga e di piombo.

Tornando ai canali riconducibili alla nostra area politica, va osservato che allo stato attuale, un importante compito di ricerca e dibattito viene quotidianamente svolto da realtà come Il Giornale d’Italia di Francesco Storace, Il Secolo d’Italia, Barbadillo.it, Totalità e una miriade di blog di area, ai quali spero che possano presto affiancarsi altre voci capaci di elaborare il nostro humus analizzandolo e contaminandolo da differenti, e perciò fecondi, punti di vista.

In questo caso specifico ritengo che due tra le definizioni più corrette di cultura della destra siano tanto «comunitaria e tradizionale» di Marcello Veneziani, quanto quella «pop contemporanea» descritta alcuni anni fa da Angelo Mellone: il giusto connubio tra modernità e tradizione, appunto. Questo per significare che la sfida più importante sia quella dare forma alla nostra matrice culturale declinandola in un linguaggio che non sia decifrabile solo da noi stessi ma, al contrario, che possa giungere dritto ai cuori dei nostri quattordicenni: è, infatti, in quella fascia d’età che germogliano le prime convinzioni politiche, ed è tra i banchi di scuola e durante i confronti in famiglia che esse si manifestano e si consolidano. Questo è il motivo che mi ha spinto, durante la stesura de La destra che vorrei, a cercare alcuni dei valori in cui ci riconosciamo tra le parole scritte o pronunciate da personaggi che, di primo acchito, potrebbero apparire lontani anni luce dal nostro comune sentire.

Certo, mi rendo conto che un percorso di questo tipo significhi mettere in discussione l’iconografia che ha caratterizzato il percorso politico e anche umano di ognuno di noi ma, finché non prenderemo pienamente coscienza del fatto che il compito della politica, e nella fattispecie di un partito, debba essere quello di affrontare e possibilmente risolvere i problemi del nostro tempo, non faremo altro che parlare a noi stessi e, forse a pochi altri.

Siamo nel 2015, e va da sé che la società di oggi sia profondamente mutata non soltanto rispetto a quella degli anni settanta, ma anche a quella degli anni ottanta, novanta e dei primi anni duemila. Come possiamo, allora, pensare di rimanere fermi a soluzioni, linguaggi e modi di essere cui siamo tutti affezionati ma che, in moti casi, risultano oggettivamente arcaici, per costruire una destra che abbia la prospettiva di governare da qui ai prossimi venti o trent’anni? Sarebbe utopia pura, esattamente come tentare di far girare i software attuali su di un vecchio Commodore Vic-20.

Sarà bene, dunque, mettere a fuoco le sfide che la nostra Comunità dovrà essere disposta a raccogliere, se vorrà affermarsi come punto di riferimento credibile per quel quaranta per cento di italiane e italiani attualmente rintanati nel non voto.

Cominciamo dal concetto di Patria, la Terra dei Padri, perché è in essa e da essa che le nostre radici affondano e traggono la linfa vitale perché ogni singolo ramo possa crescere, giorno dopo giorno. Lo scenario che è venuto delineandosi a partire dai tragici attentati dell’11 settembre 2001 – che hanno segnato, di fatto, l’inizio della Terza Guerra Mondiale – c’impone d’interrogarci su quale sia, effettivamente, il modello di Patria da perseguire. Dico questo giacché sarà bene prendere atto che, come sottolineato a più riprese da Magdi Cristian Allam, «esistono islamici moderati come persone ma non esiste un Islam moderato come religione» e, di conseguenza, lo scontro tra Occidente e Islam radicale è prima culturale, che militare, questione sollevata da Benedetto XVI con la storica Lectio Magistralis di Ratisbona del 12 settembre 2006, a causa della quale fu costretto a capitolare da una alleanza di fatto tra il «terrorismo dei taglialingue» islamici e la «dittatura del relativismo» che sta spogliando l’Occidente delle fondamenta identitarie, valoriali e culturali dell’unica civiltà – la nostra – che mette al centro la sacralità della vita, la dignità della persona e la libertà di scelta.

In un contesto siffatto, ciò che dobbiamo chiederci è se sia pensabile ridurre la questione ad una serie di slogan propagandistici sull’immigrazione o se, al contrario, questa non meriti di essere affrontata come la vera e propria madre di tutte le battaglie, il cui obiettivo è la riaffermazione della nostra identità. D’altronde, se riflettiamo, non possiamo che constatare che ad essere in difetto non è certo l’Islam che – ferme restando le considerazioni di merito – non fa altro che affermare i propri valori, ma noi Occidentali, che abbiamo alzato bandiera bianca lasciandoci sottomettere da quel processo che si prefigge di portare i cervelli all’ammasso omologandoli a un modello di società multi–etnica ma monoculturale, per meglio controllarli, sbiadendo il nostro retaggio identitario, fino a cancellarlo. Basti pensare, ad esempio, agli innumerevoli tentativi di rimuovere il Crocifisso da aule scolastiche ed edifici pubblici, alle migliaia di bambini costretti a rinunciare alle tradizioni natalizie come il Presepe e le preghiere per non «turbare» le coscienze dei bambini di fede islamica. Forse, allora, dovremmo riconsiderare Evola, quando affermava che «nell’idea va riconosciuta la nostra vera patria. Non l’essere di una stessa terra o di una stessa lingua, ma l’essere della stessa idea è quel che oggi conta» e quanto oggi dice lo stesso Papa Francesco «la Patria è il patrimonio dei nostri padri, ciò che abbiamo ricevuto da coloro che la fondarono. Sono i valori che ci hanno dato da custodire, ma non per metterli al sicuro in un barattolo di conserva, ma affinché con la sfida del presente li facciamo crescere lanciandoli verso l’utopia del futuro».

Dalla concezione di Patria, passiamo a quella di Stato che, è inutile girarci intorno, oggi è percepito dalla quasi totalità degli italiani come ingiusto ed eccessivamente invasivo con i deboli, e permissivo quando non accondiscendente nei confronti di furbi e potenti; paghiamo tante, troppe tasse, e in cambio non riceviamo servizi adeguati. La provocazione che la destra dovrebbe lanciare dev’essere quella di abbandonare la concezione di Stato-Nazione in luogo di uno Stato in Nazione, questo perché identificando la Nazione in uno Stato ingiusto, corrotto e piegato sulle sue farraginosità o in un’Europa la cui azione è evidentemente e volutamente sbilanciata a favore dei cosiddetti poteri forti, sarà pressoché impossibile riscoprire il sentimento di orgoglio nazionale. Viceversa, dovrà essere la Nazione stessa a rinsaldare un’Alleanza attraverso cui cambiare lo Stato, spogliandolo di apparati utili soltanto alla vecchia e dannosa politica assistenzialista, e di un sistema di stampo burocratico architettato ad arte affinché, nelle sue pieghe, la corruzione e il malaffare trovino terreno fertile. Nella logica della tutela del Made in Italy, non dovremmo condannare aprioristicamente tutti i nostri imprenditori che delocalizzano ma, al contrario, cominciare a domandarci perché in Italia per molti aspetti risulti impossibile fare impresa. Provate a pensare se il garage in cui Jobs e Wozniak crearono i primi Macintosh fosse stato in Italia e non negli Stati Uniti: sapete cosa sarebbe successo? Che un qualche funzionario dell’Asl li avrebbe fatti chiudere perché non avevano i permessi e Apple non sarebbe mai nata.

Come avrete notato, abbiamo parlato di Dio e Patria, dando loro una connotazione non rivolta all’indietro ma attuale, basata sul presente; va da sé che il tassello mancante sia la Famiglia che, per dirla con Giuseppe Mazzini «è la Patria del cuore». Niente di più vero. Ebbene, quella che ci troviamo a combattere oggi – non esagero – è una lotta fondamentale, di sopravvivenza. Da un lato il tasso di natalità in picchiata e gli attacchi alla famiglia di tipo tradizionale, per mezzo di scellerati tentativi come quello di svuotare le figure di madre e padre a partire da un linguaggio volutamente asettico, chiamandoli genitore 1 e genitore 2, o d’introdurre nelle scuole la teoria gender, ovvero una visione antropologica secondo la quale è finito il tempo in cui l’umanità si divide naturalmente in due sessi; dall’altro l’assenza di volontà, da parte delle Istituzioni, d’investire in politiche che la tutelino, la Famiglia. Penso all’introduzione del Quoziente Famigliare, e ad uno Stato che tagli le società partecipate, anziché alzare le rette degli asili.

È dunque vitale, per la destra, elaborare una piattaforma programmatica in grado di aprire uno squarcio di luce nel buio pesto della nostra epoca, esattamente come un faro che illumina la rotta dei naviganti dispersi in mare, così le soluzioni che dovremo essere capaci di offrire tracceranno il solco che seguiremo per risolvere questioni storicamente irrisolte come la valorizzazione dello sterminato patrimonio storico, artistico, paesaggistico e culturale che caratterizza il nostro Paese; il perseguimento di politiche sociali grazie alle quali accorciare la distanza tra lo Stato ed i suo figli meno fortunati: penso ai diversamente abili, ai malati costretti alla sofferenza in un freddo letto d’ospedale a causa di uno spesso immotivato accanimento terapeutico, agli anziani rimasti soli, alle giovani coppie che vorrebbero avere figli ma non possono permetterselo, ai padri di famiglia che non dormono la notte perché hanno perso il lavoro ed a quelli che dopo essersi separati hanno perduto la dignità perché si sono visti costretti a tornare dai loro genitori, a tutte quelle coppie che non chiedono altro se non di vedere riconosciuti i propri diritti civili, ai nostri nonni che frugano nella spazzatura perché la pensione non gli consente nemmeno di comprarsi da mangiare, alle Forze dell’Ordine che ogni giorno rischiano la vita a difesa della nostra incolumità per uno stipendio da fame e senza mezzi per poter svolgere al meglio il proprio compito, ai nostri Marò ed a tutti i militari impegnati in missione di Pace all’estero che meriterebbero di servire l’Italia avanti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di Fabrizio Quattrocchi, di Tommaso Marinetti, di Oriana Fallaci, di Gabriele d’Annunzio, di Indro Montanelli e di Giorgio Perlasca, anziché l’Italia stantia da troppi anni ostaggio di malgoverni e malfattori.

Creare una credibilità fondandola su di una base valoriale solida e comprensibile si traduce in un progetto politico riconoscibile e popolare. Pensiamo ad Alleanza Nazionale, e ai motivi che ne hanno causato il dissolvimento prim’ancora dello scioglimento nel Popolo della Libertà; per come la vedo, volendo sintetizzare al massimo il concetto, non è stata né zuppa né pan bagnato, un ibrido. Mi spiego. Se pensiamo ai grandi temi come Europa, politiche economiche, riforme, famiglia e giustizia, Alleanza Nazionale è rimasta costantemente schiacciata al centro, tra le spinte liberiste e berlusconiste di Forza Italia da una parte, e da quelle più radicali della Lega dall’altra: un costante e ostinato cerchiobottismo che, a lungo andare, è costato la perdita d’identità e senso d’appartenenza. Fu anche e soprattutto in virtù di questo suo sfaldamento interno, unitamente ad una concezione di stampo aziendalistico del partito da parte di Berlusconi ed al proliferare della politica dei nominati, a far sì che la Comunità proveniente da Alleanza Nazionale, una volta confluita nel calderone del partito unico, si disgregasse del tutto.

In virtù di questo ragionamento, l’errore più grossolano che potremmo commettere sarebbe quello di ricalcare il medesimo schema di allora, sacrificando la nostra vera identità per inseguire Forza Italia e soprattutto la Lega di Matteo Salvini, finendo inevitabilmente col risultare nient’altro che una di quelle copie sbiadite tradizionalmente gradite a chi non le vota – in particolar modo agli alleati – alle quali gli elettori hanno sempre voltato le spalle preferendo l’originale. Ancor peggio se pensassimo di confluire in un soggetto a trazione salviniana che – considerando la scarsa propensione alla democrazia interna e le distanze oggettivamente siderali in merito al concetto per noi fondante di Patria – potrebbe rivelarsi come una cura peggiore del male. Nella migliore delle ipotesi, saremmo ospiti sgraditi in quella che non sarà mai la nostra casa.

A questo proposito, mi permetto di fare una constatazione in merito alla manifestazione che la Lega ha organizzato a Roma il 28 febbraio scorso e, cioè, che nessuno, da quel palco, abbia ricordato che quarant’anni prima, proprio quel giorno e in quella stessa città, lo studente del Fuan Mikis Mantakas venne ammazzato a sangue freddo da due militanti di “Potere Operaio” perché si permise di chiedere giustizia per Virgilio e Stefano Mattei, a loro volta vigliaccamente uccisi nell’aprile di due anni prima nel Rogo di Primavalle.

Se dieci o vent’anni fa temevamo di morire democristiani, oggi il rischio è quello di morire leghisti; ma è davvero impossibile vivere da donne e uomini orgogliosamente di destra? Io credo – e lo voglio dire con chiarezza – che, sin da oggi, la nostra ambizione debba essere quella di fare in modo che nessuno di noi sia costretto ad agire pensando «il progetto non mi convince, ma non abbiamo altra scelta». Basta, abbiamo già dato. Dobbiamo invece riunire una Comunità ben sapendo che, per non collezionare l’ennesimo buco nell’acqua, dovremo cominciare da una serie di conditio sine qua non.

In primo luogo una sorta di Shengen della destra: abbattiamoli, i confini, anziché marcarli e scriviamo la parola fine in calce alla pessima abitudine di sentirci autorizzati a distribuire patenti, carte d’identità o permessi di soggiorno a chicchessia.

Ogni singolo militante che deciderà di intraprendere il cammino dovrà avere pari dignità, quale che sia il percorso che lo ha portato sin qui, purché sia disposto a mettersi in gioco al pari di tutti gli altri e non guardi all’impegno politico con lo specchietto retrovisore o peggio ancora col cappello in mano.

Sì, tutti sullo stesso piano. Come per altro recita anche il documento introduttivo, quindi anche quella che in passato fu classe dirigente di Alleanza Nazionale, per intenderci. È a voi, agli ex Colonnelli, che da semplice militante quale sono, intendo rivolgermi direttamente, senza rancore ma anche senza timori riverenziali. Poco fa ho ricordato il coraggio che ebbe Giorgio Almirante nel riporre fiducia in voi, e allora voglio rileggervi queste sue parole:

Noi siamo caduti e ci siamo rialzati parecchie volte. E se l’avversario irride alle nostre cadute, noi confidiamo nella nostra capacità di risollevarci. In altri tempi ci risollevammo per noi stessi, da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per salutarvi in piedi nel momento del commiato, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmetterla. Accogliete dunque, giovani, questo mio commiato come un ideale passaggio di consegne. E se volete un motto che vi ispiri e vi rafforzi, ricordate: Vivi come se tu dovessi morire subito. Pensa come se tu non dovessi morire mai.

Ebbene, in nome di questo inestimabile lascito, ma anche del rispetto sincero che nutro per la storia di molti di voi, vi chiedo: non lasciate che la staffetta vi cada di mano, applicate i suoi insegnamenti e forgiate gli uomini e le donne di domani. Non rimanete nella convinzione di essere il futuro, perché allora sarete visti unicamente come il passato; tornate tra la gente, come avete fatto con entusiasmo tanti anni fa e come stiamo tentando di fare noi ora, e riprendiamo a navigare assieme.

Così facendo il vento soffierà nelle nostre vele; e allora pazienza, se qualcun altro tenterà di fermarlo con le mani.

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